"Regolarmente ogni quattro anni il campionato mondiale  di calcio si dimostra un evento che affascina centinaia di milioni di  persone. Nessun altro avvenimento sulla terra può avere un effetto  altrettanto vasto, il che dimostra che questa manifestazione sportiva  tocca un qualche elemento primordiale dell’umanità e viene da chiedersi  su cosa si fondi tutto questo potere di un gioco. Il pessimista dirà  che è come nell’antica Roma. La parola d’ordine della massa era: panem  et circenses , pane e circo. Il pane e il gioco sarebbero dunque i  contenuti vitali di una società decadente che non ha altri obiettivi più  elevati. Ma se anche si accettasse questa spiegazione, essa non  sarebbe assolutamente sufficiente. Ci si dovrebbe chiedere ancora: in  cosa risiede il fascino di un gioco che assume la stessa importanza  del pane? Si potrebbe rispondere, facendo ancora riferimento alla Roma  antica, che la richiesta di pane e gioco era in realtà l’espressione  del desiderio di una vita paradisiaca, di una vita di sazietà senza  affanni e di una libertà appagata. Perché è questo che s’intende in  ultima analisi con il gioco: un’azione completamente libera, senza  scopo e senza costrizione, che al tempo stesso impegna e occupa tutte le  forze dell’uomo. In questo senso il gioco sarebbe una sorta di tentato  ritorno al paradiso: l’evasione dalla serietà schiavizzante della vita  quotidiana e della necessità di guadagnarsi il pane, per vivere la  libera serietà di ciò che non è obbligatorio e perciò è bello.
Così il gioco va oltre la vita quotidiana. Ma,  soprattutto nel bambino, ha anche il carattere di esercitazione alla  vita. Simboleggia la vita stessa e la anticipa, per così dire, in una  maniera liberamente strutturata. A me sembra che il fascino del calcio  stia essenzialmente nel fatto che esso collega questi due aspetti in  una forma molto convincente. Costringe l’uomo a imporsi una disciplina  in modo da ottenere con l’allenamento, la padronanza di sé; con la  padronanza, la superiorità e con la superiorità, la libertà. Inoltre  gli insegna soprattutto un disciplinato affiatamento: in quanto gioco  di squadra costringe all’inserimento del singolo nella squadra. Unisce i  giocatori con un obiettivo comune; il successo e l’insuccesso di ogni  singolo stanno nel successo e nell’insuccesso del tutto. Inoltre,  insegna una leale rivalità, dove la regola comune, cui ci si  assoggetta, rimane l’elemento che lega e unisce nell’opposizione.  Infine, la libertà del gioco, se questo si svolge correttamente,  annulla la serietà della rivalità. Assistendovi, gli uomini si  identificano con il gioco e con i giocatori, e partecipano quindi  personalmente all’affiatamento e alla rivalità, alla serietà e alla  libertà: i giocatori diventano un simbolo della propria vita; il che  si ripercuote a sua volta su di loro: essi sanno che gli uomini  rappresentano in loro se stessi e si sentono confermati. Naturalmente  tutto ciò può essere inquinato da uno spirito affaristico che assoggetta  tutto alla cupa serietà del denaro, trasforma il gioco da gioco a  industria, e crea un mondo fittizio di dimensioni spaventose.
Ma neppure questo mondo fittizio potrebbe esistere  senza l’aspetto positivo che è alla base del gioco: l’esercitazione  alla vita e il superamento della vita in direzione del paradiso  perduto. In entrambi i casi si tratta però di cercare una disciplina  della libertà; di esercitare con se stessi l’affiatamento, la rivalità e  l’intesa nell’obbedienza alla regola. Forse, riflettendo su queste  cose, potremmo nuovamente imparare dal gioco a vivere, perché in esso è  evidente qualcosa di fondamentale: l’uomo non vive di solo pane, il  mondo del pane è solo il preludio della vera umanità, del mondo della  libertà. La libertà si nutre però della regola, della disciplina, che  insegna l’affiatamento e la rivalità leale, l’indipendenza del successo  esteriore e dell’arbitrio, e diviene appunto, così, veramente libera.  Il gioco, una vita. Se andiamo in profondità, il fenomeno di un mondo  appassionato di calcio può darci di più che un po’ di divertimento."
(J. Ratzinger - 1985)
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